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Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

domenica 21 aprile 2024

Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana Testimonianze storiche ed archeologiche (II)


Segue; QUI la prima parte dell’articolo.


Un elemento mobile

Nel Vaticanus Reginensis 316, noto anche come Sacramentario Gelasiano, databile al 750 circa, nelle pagine che descrivono il rito del Venerdì Santo, si legge: “hora nona procedunt omnes ad ecclesiam; et ponitur crux super altare”; non è chiaro se sia un resto di riti gerosolimitani o il ritorno della croce, celata durante la quaresima, ma è certo che la croce è messa sull’altare subito dopo l’ingresso; dopo alcune orazioni “ ingrediuntur diaconi in sacrario. Procedunt cum corpore et sanguinis Domini quod ante die remansit, et ponunt super altare. Et venit sacerdos ante altare adorans crucem Domini et osculans”[47]. L’identificazione tra altare e Calvario è palese anche nei suoi aspetti di mistica e didattica eucaristica, non senza analogie col sermone di S. Agostino: “accostatevi a prendere da questo altare con timore e tremore; sappiate riconoscere nel pane ciò che pendette dalla croce e nel calice ciò che sgorgò dal costato”[48]. Il testo del Sacramentario parla inoltre chiaramente di croce sull’altare prima del dispiegamento delle tovaglie per accogliere le specie eucaristiche; la croce doveva essere sull’altare, ma in posizione distaccata dalla mensa, per non intralciare la disposizione delle sacre specie.
In Occidente fonti più tarde attestano che la croce veniva portata sull’altare solo nel momento della celebrazione eucaristica; Innocenzo III riferisce nel De Sacro Altaris Mysterio: “inter duo candelabra in altari crux collocatur media”[49]; nell’Ordo Bernhardi si specifica che durante il canto della Messa “crux a mansionariis super altare maius ponitur” [50]. Abbiamo inoltre l’attestazione che in alcune diocesi di Francia fino al secolo XVI vigeva la norma che fosse il celebrante a portare la croce sull’altare[51]. Il grande numero di croci astili realizzate nel Medioevo in modo da poter essere staccate dall’asta e che presentano la possibilità di essere infisse su un piedistallo trova forse una ragione anche in questa logica[52]; in proposito il Cӕremonialis Episcoporum fa fede di un utilizzo che prevede una croce mobile, indipendente dall’elemento che la sorregge, allorquando per l’adorazione del Venerdì Santo parla di “staccare la croce dal piedistallo”[53].
La prova di questi usi giustificherebbe il perché di tante rappresentazioni dell’altare senza croce anche nell’inoltrato XV secolo, quando ormai la croce sull’altare durante la Messa è attestata ovunque; è probabile che in alcuni luoghi essa venisse portata all’altare solo in alcuni momenti, giacchè il vero e proprio sacrificio non si compie durante l’arco di tutta la celebrazione, ma solo a momento della consacrazione, né possiamo escludere che in alcune zone per uso antico, o per abuso recente, essa fosse assente o collocata altrove. L’esigenza di rendere visibile la croce durante la “crocifissione incruenta” rappresentata dalla Messa è anche da mettere in connessione coi limiti dell’umana comprensione, per la quale non vi è l’evidenza sensibile del mistero celebrato. Già S. Ambrogio diceva “etsi nunc Christus non videtur offerre, tamen ipse offertur in terris quando corpus Christi offertur”[54]; la rappresentazione visibile diviene quindi anche una naturale esigenza.

Prove di una croce sull’altare in ambito orientale nel V-VI secolo


Un collegamento s’impone con la raffigurazione, sulla pisside del Cleveland Museum of Art, di una mensa d’altare tripode sotto un ciborio, sulla quale si trovano una croce e un libro chiuso[55]; nonostante le difficoltà sulla datazione, che si aggira intorno al secolo V-VI, abbiamo la prova di una croce in posizione centrale rispetto alla mensa, in evidente funzione rituale. Essa si trova inoltre al centro della curva di un altare tripode a sigma, nella posizione opposta al celebrante, che era sempre sul lato retto; non è escluso che la croce avesse un piedistallo proprio ed indipendente dalla mensa; sul ritrovamento della pisside sussistono alcuni dubbi per la sua provenienza da collezione, ma l’ipotesi concordemente avanzata è l’ambito siro-palestinese.
Interrogativi solleva anche la raffigurazione di un sarcofago restituito dalla necropoli di Takadyn, in Asia Minore, che sembra riprodurre un altare sormontato da una croce, sotto un baldacchino ad arco; si nota che la croce rappresentata è dotata di un piedistallo, il che indurrebbe a pensare ad un elemento mobile[56]. La datazione della necropoli e del sarcofago è piuttosto incerta, potrebbe collocarsi nei secoli V, VI.


Di particolare rilievo è la notizia che, nel secolo VI, nelle chiese nestoriane di Mesopotamia, fosse corrente e prescritta la presenza della croce su una mensola soprastante l’altare addossato al muro, il cosiddetto “Katastroma”[57]. Ad esso era rivolto il sacerdote durante la consacrazione. Siamo in presenza di alcuni dati che testimoniano di usi comuni o similari nell’Oriente cristiano antico per un epoca che non oltrepassa il secolo V-VI.

Conclusioni

“Legimus in Veteri testamento quod semper Dominus Moysi et Aron ad ostium tabernacoli sit locutus” scrive Girolamo[58]. Per rivolgersi a Dio e riceverne benedizioni è naturale che ci si indirizzi verso di Lui o verso ciò che indica la Sua presenza e il Suo legame con gli uomini. Nel vecchio rituale del tempio di Gerusalemme il sacrificio e la preghiera erano rivolti verso l’Arca dell’Alleanza e, dopo che l’arca fu depredata, verso la pietra che la sosteneva, la cosiddetta sethiya. Nelle sinagoghe, dove non era possibile sacrificare, si andava per pregare e ci si rivolgeva verso Gerusalemme[59], nella cui direzione era una nicchia contenente i libri sacri, così come l’Arca aveva contenuto le tavole della legge (i ritrovamenti archeologici della sinagoga di Doura Europos hanno reso un esempio di tale nicchia ricavata nel muro con precisa orientazione).

Il sacerdote è mediatore e, nel suo ruolo d’intercessore, non può che rivolgersi a Dio o a ciò che lo figura. Come l’Arca nell’Antico Testamento così la Croce è il simbolo della Nuova Alleanza suggellata da Cristo, del nuovo legame tra Dio e gli uomini. Il mosaico di S. Pudenziana a Roma, dal carattere più liturgico che decorativo, sembra testimoniare particolarmente di questa idea della Croce come ponte fra il divino e l’umano, come unico mezzo per il raggiungimento della Gerusalemme celeste verso cui indirizzarsi[60]. La Croce è il fulcro verso il quale lo sguardo di celebrante e fedeli si “orienta”. Secondo la tesi di Stefan Heid la croce e l’abside assumono in questo caso la funzione di “Oriente ideale” verso cui rivolgere la preghiera, specie negli edifici in cui manca un orientamento “fisico” verso il sorgere del sole, come a Roma[61]. E’ anche ipotizzabile che in antico la croce non obbligasse sempre e comunque ad un rivolgimento diretto verso di essa, ma che essa fosse presente, in posizioni diverse, ma sempre centrali, come segno visibile del rinnovarsi del sacrificio di Cristo sugli altari: un monito per celebrante e fedeli. Per visibilia ad invisibilia. In un contesto eucaristico ove altro è quel che si vede, altro è quel che è, l’immagine del mistero che si realizza ha la sua più che ragionevole collocazione.

E’ comunque un dato di fatto che il rivolgimento verso la croce prevale nella liturgia romana fino a diventare generale almeno a partire dal Basso Medioevo. Non si può forse affermare con certezza la diffusione universale di questa pratica in epoca tardo antica e non è certo che fin dai primi secoli ovunque si sia pregato “versus crucem”. In ambito romano e ravennate tuttavia è probabile che già nel corso del V-VI secolo, nello spazio presbiterale, la croce potesse essere sospesa ad una certa altezza nella navata o nel presbiterio, oppure che fosse collocata in prossimità dell’altare, forse su un piedistallo indipendente dalla mensa[62], oppure, come accennato sopra, che fosse rappresentata nell’abside. Analoghe appaiono le datazioni per l’ambito orientale.
E’ forse possibile che per il rito romano la generalizzazione uniforme degli usi non si sia avuta prima del XII secolo, ma la celebrazione verso la croce o la centrale presenza di essa in ambito liturgico sono difficili da negare già per il secolo V e le testimonianze archeologiche e documentali sembrano andare in tal senso.

Don Stefano Carusi

[47] A. Chavasse, Le cycle liturgique romain annuel selon le sacramentare du “Vaticanus reginensis 316” in Textes liturgiques de l’Eglise de Rome, Paris 1997, p. 98-103 ; Id., La liturgie de la Ville de Rome du Vᵉ au VIIᵉ siècle, Roma 1993 (Studia Anselmiana 112 - Analecta liturgica 18), p. 191, l’autore rimanda questa pratica liturgica del Venerdì Santo alla liturgia titolare.
[48] Aug., serm. CCXXVIII B (PL 46, 827-828). Miscellanea Agostiniana, vol. I, Sancti Augustini sermones post Maurinos reperti, ed. G. Morin O.S.B., Romae, Typis polyglottis Vaticanis, 1930, pp. 18-20.
[49] Innoc. III, De Sacro Alt. Myst., II, c. 21 (PL 217, 811). Il sacrosanto mistero dell’altare (De sacro altaris mysterio), a cura di Stanislao Fioramonti, Città del Vaticano 2002 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 15).
[50] Ludwig Fischer (ed.), Bernhardi cardinalis et Lateranensis ecclesiae prioris Ordo Officiorum Ecclesiae Lateranensis, München u. Freising 1916, p. 98; M. Righetti, Manuale, p. 536 ss.
[51] Ibidem.
[52] Già l’Ordo Romanus I, 125-126 (Andrieu), parla di “cruces portantes”, sebbene la loro funzione non sia stata del tutto chiarita.
[53] Cӕremonialis Episcoporum, l. II, cap. XXV, 23 (ed. 1752).
[54] Ambr., Explan. psalm. XII, XXXVIII, 25, 3 (ed. Petschenig, CSEL 64/6).
[55] Archer St. Clair, The Visit to the Tomb:Narrative and liturgy Three Early Christian Pyxides, in Gesta, t. 18 (1979) p. 131 ss., fig. 9.
[56] Pasquale Testini, Archeologia Cristiana, Bari 1980, p. 305.
[57] Si tratta delle omelie dello Pseudo-Narsai, cfr. Richard Hugh Connolly, The liturgical homilies of Narsai, Cambridge 1909, Cfr. Sebastian P. Brock, Diachronic aspects of syriac word formation : an aid for dating anonymous texts, in V Symposium Syriacum (Katholieke Universiteit, Leuven, 29-31 août 1988), Roma 1990, pp. 321-330, (OCA 236); Louise Abramowski, Die liturgische Homilie des Ps. Narses mit dem Meßbekenntnis und einem Theodor-Zitat, in Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester 78 (1996), p. 87-100.
[58] Hier., epist. XVIII A (ad Damasum), 8, 1 (CSEL 54/1).
[59] Louis Bouyer, Architettura e liturgia, Magnano 1994, pp. 16 e ss.
[60] S. Heid, Kreuz, Jerusalem, Kosmos, Munster 2001, pp. 169 e ss.
[61] S. Heid, Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit. in Rivista di Archeologia Cristiana 82 (2006).
[62] Quest’ultima soluzione risolverebbe, nel caso di Roma, il famoso nodo di una croce sull’altare prima dell’attestato dispiegamento delle tovaglie da parte dei diaconi.

Pubblicato da Disputationes Theologicae

sabato 20 aprile 2024

Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana Testimonianze storiche ed archeologiche (I)




" da Disputationes Theologicae"
Lo studio della liturgia antica, in particolare romana, si scontra fin dal suo delinearsi, con la difficoltà a ricostruire con precisione la disposizione dello spazio presbiterale dei primi otto secoli dell’era cristiana. Non è sempre facile ricostruire con precisione lo spazio absidale e la stessa posizione dell’altare con i relativi arredi pone ancor oggi dei problemi in parte irrisolti. Sappiamo con certezza che in epoca medievale e moderna la prescrizione della presenza della croce in corrispondenza della mensa è raccomandata come fondamentale dai messali e dalla tradizione dei diversi riti. Siamo anche certi che già a partire dai primi secoli del secondo millennio, nelle differenti famiglie liturgiche dell’orbe cristiano, la rappresentazione nello spazio d’altare della croce è ormai generalizzata: la sua presenza ricorda il sacrificio del Venerdì Santo e sottolinea il significato teologico della Messa. Più discussa fra gli studiosi è l’epoca dell’introduzione di tale elemento come arredo centrale dell’altare, soprattutto se il dibattito storico riguarda il primo millennio dell’era cristiana.


Nell’analisi che segue si tenterà di approfondire il legame simbolico-liturgico tra la celebrazione eucaristica, l’altare e la croce. Si cercherà, a seconda dei territori analizzati e con particolare riferimento alla penisola italiana, di verificare se sia possibile proporre una datazione relativa alla sicura presenza della croce in ambito cultuale, quale elemento fondamentale e centrale nella disposizione dell’altare.

E’ bene premettere che le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici in proposito sono di una disarmante esiguità e che i ritrovamenti locali e sporadici - tenendo conto anche del particolarismo liturgico dell’orbe cristiano antico - mal si prestano a generalizzazioni troppo affrettate. E’ noto che nel campo della storia della liturgia la prudenza deve essere particolare preoccupazione del ricercatore, non solo per la delicatezza dell’argomento, ma anche perché le molte ricostruzioni accademiche fatte “a tavolino”, hanno col tempo rivelato le incertezze e le incongruenze di tesi audaci e a volte infondate. Per converso è noto quanto il conservatorismo rituale incida sulla liturgia, al punto che, almeno fino ad epoca recente, è più facile incontrare usi di cui si fosse persa la ragione che assistere ad introduzioni ex nihilo. Nel caso di una tradizione nota e ricorrente - come la presenza della croce sull’altare - è metodologicamente più corretto dimostrare l’epoca della sua introduzione, piuttosto che negarne l’esistenza in epoca antica sulla base di silenzi delle fonti, giacchè l’assenza di prove non è sempre prova di un’assenza[1].

Per inciso giova anche rammentare che la storia della liturgia si trova, per più ragioni, esposta a interpretazioni spesso arbitrarie; la proiezione nell’antichità di dibattiti teologici recenti ha spesso falsato la panoramica e un primitivismo dalle utopie retrospettive ha attribuito ai cristiani della tarda antichità problemi molto lontani dalle loro menti.

Status quaestionis

La preghiera liturgica della testimonianza vetero-testamentaria, così come la successiva tradizione cristiana, è essenzialmente un rivolgimento a Dio per impetrare propiziazione, lodare, ringraziare, adorare per mezzo di un mediatore, il sacerdote istituito da Dio stesso[2]; il rapporto tra Dio e gli uomini è legato da un patto, da un’alleanza; segno di quest’alleanza era in antico l’Arca, nei tempi nuovi la Croce. E’ il sacrificio del Figlio che riconcilia gli uomini con il Padre, è la Crocifissione, che si rinnova in maniera incruenta sugli altari, che ha restaurato la caduta d’Adamo[3]; bisogna quindi determinare se sia coerente con i dati storico-archeologici pensare che ciò che si realizza in maniera non direttamente visibile con gli occhi di carne, fosse rappresentato in maniera visibile in uno spazio in connessione all’altare.

E’ dato assodato che la presenza della croce sull’altare sia una costante per la maggioranza dei riti in Oriente a partire dal secolo VII-VIII, più discussa è la situazione in Occidente, per le incertezze sull’epoca di introduzione a seconda delle zone. Appare alquanto singolare che questa uniformità si noti anche nelle comunità cristiane separate da Roma e Costantinopoli fin dal VI secolo, come è il caso di alcune comunità della Siria e dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India. Bisogna stabilire se il fattore sia tanto primitivo da essere precedente alla separazione o se vi sia stata emulazione, in questo caso valutare in che senso vi sia stata influenza.

In ambito romano e occidentale, a parere di alcuni autori, non si può parlare di presenza della croce sull’altare prima del XII - XIII secolo[4]. Il silenzio sull’argomento da parte dell’Ordo Romanus I[5] e alcune rappresentazioni dello spazio dell’altare ascrivibili ai sec. X-XI, che ancora non riproducono la croce sopra la mensa, ne sarebbero la testimonianza ( per citare alcuni esempi di ambito romano e centroeuropeo si possono menzionare il noto affresco della Messa di S. Clemente dipinto presso l’omonima basilica di Roma o le miniature nell’evangeliario per l’Abbadessa Uta di Niedermunster[6] o dell’evangeliario di San Bernward di Hildesheim[7]).

Lo studio della documentazione dell’alta antichità cristiana pone però degli interrogativi che, sebbene di non facile soluzione, non permettono tuttavia il carattere categorico attribuito in passato alla tesi di un’introduzione tardo-medievale della croce.
Difficile stabilire con certezza se una rappresentazione dello strumento della Passione fosse o meno sull’altare in epoca antica o se fosse in posizione centrale e visibile, benché non direttamente appoggiata sulla mensa, o se infine vi fosse una relazione col rivolgimento a Oriente. Appare comunque con evidenza, oggi più che in passato, la necessità di ampliare la prospettiva nei suoi risvolti archeologici e simbolico-teologici, analizzando la possibilità di una retrodatazione della presenza della croce sull’altare.

Oriente e Croce in alcune passiones e scritti antichi

Gli atti di alcuni martiri di Samosata vissuti nei secoli III - IV[8], offrono dei dati d’interesse; negli Acta Hipparchi Philothei et sociorum[9], si legge che alcuni cristiani erano convenuti nella casa di un certo Ipparco per pregare verso Oriente e verso la Croce: “[…] crucemque pinxerat in orientali pariete. Ibi, ante crucis imaginem, converso ad orientem ore, Dominum Iesum Christum quotidie septies adorabant”[10]. Si evince chiaramente che i cristiani di Samosata pregavano rivolti verso Oriente e in quella direzione dipingevano una Croce sulla parete. Nel citato testo si legge più avanti che i pagani accusarono i cristiani di venerare una croce lignea; essendo il testo databile al V secolo, il Peterson deduce che il riferimento alla croce lignea è probabilmente un’interpolazione avvenuta al momento della redazione, ma il riferimento alla croce dipinta sul muro è da considerarsi autentico, perciò di III-IV secolo[11]; abbiamo quindi, anche considerando le recenti critiche che il Wallraff ha mosso al testo[12], una prova di preghiera “versus crucem et orientem” attestata almeno nel IV secolo; non meno interessante è l’interpolazione di V secolo sulla croce lignea, perché non è improbabile che una pratica liturgica coeva possa aver influenzato i redattori.

Il rivolgimento ad Oriente durante alcune fasi della preghiera, ampiamente noto dagli scritti di Tertulliano[13] e di numerosi Padri, è da tempo oggetto di dibattito scientifico ma, tanto il Dölger[14] che il Gamber,[15] che hanno studiato l’argomento e dimostrato come il fenomeno interessasse gran parte dell’orbe cristiano antico, si sono occupati marginalmente del legame con la croce.
Nei secoli V, VI la relazione fra Oriente e croce sembra un’acquisizione almeno per la Siria: negli atti di Kardagh si legge che il Santo dopo la conversione “subito surgens ingressus est cubiculum et delineavit in pariete orientali signum crucis, et cecidit super faciem suam in terram et oravit coram illo”[16]. Il documento costituisce una ulteriore prova della pratica di dipingere una croce nella parete orientale in occasione della preghiera, quindi dell’esigenza di avere dinanzi agli occhi lo strumento della Passione.
Il problema della croce sui muri è conosciuto anche in uno scritto attribuito un tempo a S. Giovanni Crisostomo[17]. Origene riferisce il dato interessante di un rivolgimento della preghiera verso Oriente in direzione di un muro[18].
L’eresiologia fornisce ulteriori indizi: i Marcioniti, che erano fortemente ostili al culto della croce, pregavano verso Occidente con un preciso intento polemico[19], il legame tra i due elementi sembra di nuovo attestato anche se da una prova “a contrario”.
La preghiera rivolta a Oriente e verso la croce, sosteneva il Peterson[20], avrebbe un significato escatologico; sarebbe il rivolgersi, secondo il noto passo di Matteo[21], verso la direzione da cui Cristo ha promesso di tornare sulla terra preceduto dalla croce; l’interpretazione di quest’associazione, nel suo aspetto storico e teologico-simbolico, è stata oggetto di recenti studi e dibattiti[22].

Nella polemica anticristiana del II secolo è d’interesse il discorso attribuito a Frontone e riferito nell’ “Octavius” di Minucio Felice; tra alcune accuse alla nuova religione si trova la menzione che i cristiani non solo compissero cerimonie con il legno della croce “crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur”, ma che ad essa erigessero altari, “congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur”[23]. Il dato che vi fossero a Roma nella seconda metà del II secolo altari nei quali si venerasse la croce doveva inorridire i contemporanei pagani, esso appare nel testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse appare alquanto verosimile e pone interessanti interrogativi, specie tenendo conto della continuità con la prassi posteriore.

Alcune testimonianze sulle Basiliche romane e il Liber Pontificalis di Roma e Ravenna

Risulta piuttosto arduo indagare la storia liturgica attraverso i resti dei “tituli romani”[24] così come la ricostruzione dello spazio presbiterale delle stesse basiliche costantiniane di Roma presenta dei nodi di difficile soluzione[25], nuoce agli studi la continuità del culto cristiano e le sovrastrutture successive non sempre rendono identificabili i resti antichi. La testimonianza offerta dal Liber Pontificalis[26] sembra invece permettere l’avanzamento di alcune ipotesi più circostanziate.
Le donazioni costantiniane alla Basilica Salvatoris ci permettono di ricostruire alcuni elementi fondamentali[27]: sappiamo che Costantino donò i noti “septem altaria” d’argento, unitamente a sette candelieri da porre davanti ad essi, la questione ha sempre sollevato numerosi dubbi sulla funzione di questi oggetti preziosi, il fatto che gli altari fossero di eguale peso lascia supporre che fra essi non vi fosse compreso l’altare della consacrazione, che avrebbe dovuto avere maggiori dimensioni e differente monumentalità. L’assenza di una donazione imperiale in proposito, proprio per la basilica dei Pontefici Romani, lascia ulteriormente propendere per la veridicità della tradizione pervenutaci, cioè che fosse in uso nella basilica, ancora ai tempi di Costantino, un antico altare usato dai vescovi precedenti, che, in virtù della sua antichità e venerazione, avrebbe conservato la funzione primigenia anche nel pieno IV secolo[28]. Il dato ridimensionerebbe le teorie sugli stravolgimenti liturgici operati in epoca costantiniana e testimonierebbe di cambiamenti solo marginali, retrodatando quindi l’introduzione di alcuni usi.
Sulla base di questi presupposti, il Klauser avanza l’ipotesi che i sette altari avessero la funzione di mensa per le offerte e ne ipotizza una collocazione ai lati del Fastigium, nella asimmetrica disposizione di quattro da una parte e tre dall’altra. Studi più recenti sullo spazio intorno al Fastigium si sono concentrati sulla ricostruzione dello spazio presbiterale, ma rimane difficile avanzare ricostruzioni dettagliate sul rito che doveva compiersi al suo interno[29].

La ricostruzione dello spazio absidale della Basilica Vaticana di S. Pietro è stata resa possibile da una scoperta archeologica dei primi del Novecento, fatta nella chiesa di S. Ermagora a Pola, il ritrovamento della cosiddetta capsella di Samagher: “difficile immaginare un altro cimelio che al pari di esso assuma tanta importanza in diversi campi, nella storia dell’arte paleocristiana, nella storia dell’impero, nella storia della Chiesa”[30]. La cassetta fu realizzata a Roma intorno al 440 e destinata a contenere delle reliquie, fu forse donata da Sisto III o da Leone Magno a Valentiniano. Nelle quattro facce sono rappresentati alcuni luoghi santi della Cristianità, sul lato posteriore è la rappresentazione della Basilica di San Pietro; oltre la cosiddetta “Pergula Vaticana”, è rappresentato un corpo quadrangolare, al di sopra del quale è visibile una croce, non è facile stabilire se essa sia infissa sulla superficie o se sia decorazione di una nicchia retrostante, ma la sua innegabile presenza in questo contesto è da ricondurre alla memoria dell’Apostolo Pietro e forse ad un ruolo liturgico, le due ipotesi non si escludono a vicenda. L’altare poteva, supponendo la sua mobilità, essere apposto in prossimità della confessione durante il rito e non essere quindi rappresentato nella capsella, ma resta ragionevole pensare che la celebrazione avvenisse in prossimità della memoria dell’Apostolo; la posizione laterale dei personaggi rappresentati, determinata dall’impossibilità di essere sul fronte per la presenza della “fenestella confessionis”, pone l’interrogativo tuttora irrisolto della posizione precisa della mensa d’altare[31]. L’ipotesi che nella Basilica Vaticana si celebrasse in presenza di una croce, intenzionalmente o meno, già agli inizi del V secolo, non può essere elusa, la croce è al centro dello spazio presbiterale. L’ipotesi che sia solo segno della memoria dell’Apostolo, o che si trovasse in una retrostante nicchia, non inficia il rapporto con la liturgia, perché lo spazio della memoria dell’Apostolo è anche lo spazio privilegiato della celebrazione.

Un altro nodo della disposizione dello spazio liturgico è costituito dagli oratori ed altari laterali, presenti almeno dall’epoca di Papa Ilario ( 461-468) nella Basilica Salvatoris e dall’epoca di Papa Simmaco (498 - 514) nella Basilica Vaticana, essi appaiono addossati a nicchie e orientati in maniera difforme. Nel caso della Basilica Vaticana, l’ “Oratorium Sanctae Crucis”, che sappiamo essere situato nello spazio del transetto destro, era dotato di una croce gemmata contenente una reliquia della Vera Croce, posta in una nicchia, e di un relativo altare, verisimilmente rivolto verso la nicchia; nello spazio del Battistero, gli altari di S. Giovanni Evangelista e quello del Battista, erano entrambi addossati al muro; nella cosiddetta “Rotonda” l’altare di S. Andrea e quelli ad esso contigui, erano orientati in differenti direzioni, ma tutti verso un muro[32]; non è sempre facile stabilire quando e come si celebrasse su questi altari, ma è probabile che il celebrante fosse rivolto verso il muro o l’eventuale immagine o reliquia che vi era deposta.
Secondo il Liber Pontificalis di Roma, le donazioni di croci alla Basilica Vaticana e ad altri edifici dell’Urbe si susseguono con continuità. Costantino, sotto papa Silvestro (314-335), dona alla basilica di S. Pietro una grande croce di 150 libbre da mettere davanti al corpo di S. Pietro[33], un’altra dello stesso peso da collocare “super locum Beati Pauli”[34]; leggiamo che Vigilio (537-555) “obtulit crucem auream cum gemmis”[35]; all’epoca di Pelagio II la croce donata da Belisario, si trova ancora “ante corpus Beati Petri”[36]; interessante il dono di una croce da parte di Leone III (795-816), “pendentem in pergola ante altare”[37]; lo stesso pontefice “fecit crucem maiorem (…) stat iuxta altare maiore”[38], in questo caso è una grande croce, la principale (maiorem) e soprattutto destinata all’altare maggiore, “iuxta” può significare sopra, sospesa o infissa su un supporto. Sappiamo di una croce col nome di Leone IV alla quale fu riargentata la “virga in qua cruce continetur” e la quale “stat parte dextra iuxta altare maiore”[39], la collocazione e la funzione di questo elemento interroga particolarmente, vi potrebbe essere un rimando ad una croce processionale collocata presso l’altare, ancora una volta il maggiore, e che necessitava di un supporto eventualmente fisso.

Le donazioni di croci interessano anche gli altari laterali, il papa Ilario dona a ciascuno degli oratori della Basilica Salvatoris, l’uno di S. Giovanni Evangelista, l’altro di S. Giovanni Battista, una “confessio” con una croce d’oro e fa un simile donativo, ma in questo caso col legno della Santa Croce, per l’Oratorio della Santa Croce[40]; per un altro Oratorio della Santa Croce, quello della Basilica Sancti Petri, Papa Simmaco dona una “confessionem et crucem ex auro”[41]. Appare estremamente significativo che il Liber Pontificalis parli di “confessionem et crucem ex auro” come di un insieme e il legame - o la citazione dei due elementi in associazione - si riscontra in più di un passaggio, tanto per le due maggiori basiliche dell’Urbe che per Santa Maria Maggiore, per la quale non mancano donativi di croci per l’altare[42].

La connessione tra sepolcro venerato, altare maggiore e croce sembra un dato sufficientemente documentato, più ardua risulta la ricostruzione della disposizione strettamente liturgica.
L’enfasi data a certe donazioni, la preziosità del materiale utilizzato, l’unicità del pezzo donato, lasciano intendere che l’oggetto fosse destinato ad un uso che prevedesse centralità, rilievo e visibilità.

Nell’ambito ravennate, sappiamo che il vescovo Maximianus “crucem vero auream maiorem ipse fieri iussit et pretiosissimis gemmis et margaritis ornavit”[43], ricorre il termine “maiorem” ad evidenziare la monumentalità che l’oggetto doveva avere anche nella sua collocazione. Nel VI secolo il vescovo Agnellus (557-570) “fecit crucem magnam de argento in Ursiana ecclesia super sedem post tergum pontificis in qua sua effigies manibus expansis orat”[44]; l’esistenza di una croce argentea di notevoli dimensioni collocata sopra la cathedra o al centro del catino absidale, può rinviare ad una centralità liturgica del manufatto metallico[45].

...CONTINUA

* Desidero ringraziare il Rev. do Prof. Stefan Heid del Pontificio Istituto d’Archeologia Cristiana e il prof. Philippe Bernard dell’Università di Aix-en-Provence, uno speciale riconoscente pensiero va alla prof. Simonetta Minguzzi dell’Università di Udine


[1] Si tratta di un dibattito fiorito intorno alle visioni storiciste del secolo scorso che ha influenzato tanto l’archeologia che la storiografia ecclesiastica; le discipline storiche antichistiche ne furono anch’esse influenzate, specie in rapporto al dato della tradizione al quale si negava sistematicamente il valore di “fonte”, Cfr. Maurice Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophique de l'exégèse moderne, in La Quinzaine 16 janvier 1904, pp. 145-167, 1er février, pp. 349-373, e 16 février, pp. 433-458, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, Paris, 1956 (Bibliothèque de philosophie contemporaine), pp. 149-228, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, Paris, 1997, pp. 387-453 ; Id., De la valeur historique du dogme, in Bulletin de littérature ecclésiastique 7 (1905), pp. 61-77, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, pp. 229-245, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, pp. 494-507. Cfr. Pierre Gauthier, Newman et Blondel : tradition et développement du dogme, Paris, 1988 (Cogitatio fidei, 147) ; Rèné Virgoulay, Blondel face à l'historicisme : Histoire et dogme, in De Renan à Marrou : l'histoire du christianisme et les progrès de la méthode historique, 1863-1968, Villeneuve-d'Ascq, 1999 (Histoire et civilisations), pp. 83-93 ; Rosanna Ciappa, Rivelazione e storia. Il problema ermeneutico nel carteggio tra Alfred Loisy e Maurice Blondel (febbraio-marzo 1903), Napoli, 2001 (Pubblicazioni del Dipartimento di discipline storiche, 14) ; Louis-Pierre Sardella, Mgr Eudoxe Mignot (1842-1918). Un évêque français au temps du modernisme, Paris, 2004 (Histoire religieuse de la France, 25), pp. 689-699 ; Giacomo Losito, “De la valeur historique du dogme” (1905). L’epilogo del confronto di Maurice Blondel con la storicismo critico di Loisy , in Cristianesimo nella storia 27 (2006), pp. 471-511.
[2] Cfr. Martin Klöckener, Conversi ad Dominum in Augustinus-Lexikon, t. 1, col. 1280-1282 ; Id. Die Bedeutung der neu entdeckten Augustinus-Predigten (Sermones Dolbeau) für die liturgiegeschichtliche Forschung, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 153-154 ; François Dolbeau, Augustin d'Hippone, Vingt-six sermons au peuple d'Afrique retrouvés à Mayence, Paris 1996, pp. 171-175 e 623 ; Noël Duval, Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, Rome, 1971 (BEFAR 218 bis), pp. 303 ss. e 350-351 ; Id., Les installations liturgiques dans les églises paléochrétiennes, in Hortus artium medievalium 5, Zagreb (1999), p. 15 ; Id., Commentaire topographique et archéologique de sept dossiers des nouveaux sermons, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 196-198; Id., Architecture et liturgie : les rapports de l’Afrique et de l’Hispanie à l’époque byzantine, in V reunió d’arqueologia cristiana hispànica (Cartagena, 1998), Barcelone, 2000, p. 16; Raymond Étaix, Le sermon 17 de saint Césaire d'Arles. Texte complet, in Philologia sacra. Biblische und patristische Studien für Hermann J. Frede und Walter Thiele zu ihrem siebzigsten Geburtstag, t. 2, Fribourg, 1993 (AGLB 24), pp. 560-567; Sible de Blaauw, In vista della luce, in Arte medievale, le vie dello spazio liturgico, a cura di Paolo Piva, Milano 2010, pp. 15-45.
[3] Marius Lepin, L’idée du Sacrifice de la Messe, Parigi 1926, pp. 37-94.
[4] Josef Andreas Jungmann, La liturgie de l’église romaine, Mulhouse 1957, p. 69; la stessa opinione in Mario Righetti, Manuale di storia liturgica, Milano 1964, t. I, p. 535; entrambi i testi sono di taglio manualistico, ma l’opinione sul posizionamento della croce da essi riferita ebbe una notevole diffusione anche in ambito specialistico, sebbene essa mancasse di un solido fondamento archeologico.
[5] Michel Andrieu, Les Ordines Romani du Haut Moyen Age 2, Lovanio, 1948, pp. 67 e ss.
[6] Louis Grodecki, Florentine Mutherich, Jean Taralon, Le siècle de l’an mil, 1973, p. 157.
[7] Ibidem, p. 108, 109.
[8] Bibliotheca Sanctorum, Roma 1961-1969, vol. VII, p. 864 s.
[9] Evodio Assemani, Acta Hipparchi, Philothei et sociorum, in Acta sanctorum martyrum orientalium et occidentalium, II, Romae 1748, pp. 124-147.
[10] Ibidem, p. 125.
[11] Erik Peterson, La Croce e la preghiera verso Oriente in Ephemerides Liturgicae, vol. 59 (1945), p. 52.
[12] Sul legame simbolico frequente nella letteratura dei Padri tra Cristo Redentore e la luce di Cristo “Sole di salvezza”: Franz Joseph Dölger , Sol salutis. Gebet und Gesang im christlichen Altertum, Münster, 2 ed., 1925 (LQF 4/5); Martin Wallraff, Christus verus sol. Sonnenverehrung und Christentum in der Spätantike, Münster, 2001 (JAC, Ergänzungsband 32). Cfr. anche Ignazio Tantillo, L’impero della luce. Riflessione su Costantino e il sole, in MEFRA 115 (2003), pp. 985-1048, e Stephan Berrens, Sonnenkult und Kaisertum von den Severern bis zu Constantin I. (193-337 n. Chr.), Stuttgart, 2004, pp. 229-234 (Historia Einzelschriften 185).
[13] Tert., Apol. XVI, (ed. E. Dekkers, CCL 1/1).
[14] F.J. Dölger, Sol Salutis.
[15] Klaus Gamber, Conversi ad Dominum, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte 67 (1972), pp. 49- 64.
[16] Jean Baptiste Abbeloos, Acta Mar Kardaghi martyris, Bruxelles 1890, p. 34 s.; Anton Baumstark, Geschichte der syrischen Literatur, Bonn 1922, l’autore data gli atti al VI secolo; non si può dedurre con certezza in che epoca sia vissuto il santo, ma, trattandosi di un abate, è stato ipotizzato sia vissuto non prima del sec. IV; E.Peterson, La Croce, p. 53.
[17] [Io. Chr.], Hom. in Matth. LIV, 4 (P.G. 58, 537); cfr. anche Io. Chr., Contra Iudeos et Gentiles (P.G. 48, 826).
[18] Orig., De orat., 32 (ed. Koetschau, GCS 3).
[19] Tert., Advers. Marcion., III, 22 (ed. Kroymann, CCL 1/1). ; F.G. Dölger, Sol salutis, p.173.
[20] E. Peterson, La Croce, p. 63.
[21] Mt, 24, 30.
[22] Uwe Michel Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, passim.
[23] Min. Fel., Oct., IX, 4 (ed. B. Kytzler, “Bibliotheca Teubneriana”). Enrico Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, Roma 1992, pp. 59-60, Carlo Maria Kaufmann, Manuale d’Archeologia Cristiana, Roma 1992, pp. 59-60.
[24] Guglielmo Matthiae, Le chiese di Roma dal IV al X secolo, Rocca San Casciano 1962, p. 24.
[25] cfr. Richard Krautheimer, Architettura sacra, passim.
[26] Louis Duchesne, Liber pontificalis, Roma 1880, (LP), pp. 172- 176; cfr. anche Eus., V. C., III, 45; IV, 46 (ed. Winkelmann, GCS 7/1). L’attendibilità degli elenchi contenuti nel Liber pontificalis è stata confermata da studi recenti, che hanno evidenziato la veridicità dei dati riguardanti l’elencazione delle proprietà terriere, R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale, op. cit., p. 22; cfr. anche Hermann Geertmann, Hic Fecit Basilicam, Leuven 2004.
[27] Sible de Blaauw, Cultus et Decor, liturgia e architettura nella Roma tardo antica e medievale, Città del Vaticano 1994.
[28] Theodor Klauser, Die konstantinischen altäre der Lateranbasilika, in Römische Quartalsschrift fur christliche Altertumskunde und für Kirchengeschichte, 43, 1935, pp. 179-186.
[29] Ursula Nilgen, Das fastigium in der basilica constantiniana un vier bronzesaulen des Lateran, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte, 72, 1977, pp. 20 ss.
[30] Angela Donati (a cura di), Dalla Terra alle Genti, Milano 1996, p. 327; Margherita Guarducci, La capsella eburnea di Samagher, un cimelio di arte paleocristiana nella storia del tardo impero, Trieste 1978 (Estratto da Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e storia Patria, vol. 78, 1978, pp. 5-141)
[31] S. de Blaauw, Cultus et Decor, t. 2, p. 470 e ss.
[32] Ibidem, t. 2, pp. 485-492, pp. 566-579 e fig .19, l’autore propone anche una eventuale croce all’interno di una nicchia sul fronte dell’altare in basso.
[33] LP, 34, 17; H. Geertmann, Hic Fecit Basilicam, p. 63.
[34] LP, 34, 21.
[35] LP, 62, 2.
[36] LP, 59, 2.
[37] LP, 98, 49 .
[38] LP, 98, 87.
[39] LP, 105, 56.
[40] LP, 48, 2-3.
[41] LP, 53,7.
[42] LP, 98, 50; 98, 86.
[43] Giuseppe Bovini, Suppellettile d’oro e d’argento nelle antiche chiese di Ravenna in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1975), Ravenna, pp.139 e ss.
[44] Ibidem.
[45] G. Bovini, ”Le imagines Epicoporum” Ravennae ricordate nel Liber Pontificalis di Andrea Agnello”, in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1974), Ravenna, pp. 58, 61.


Pubblicato da Disputationes Theologicae

giovedì 18 aprile 2024

La professione di Fede e il sospetto di eresia





Corde creditur ad iusititiam, ore autem confessio fit ad salutem (2Tess. 1, 11)

di don Mauro Tranquillo

La fede, virtù senza la quale non si può piacere a Dio, non può limitarsi a essere una convizione interiore. Deve essere espressa esternamente, specialmente per essere diffusa. L’adesione alle verità non può essere separata dal rifiuto degli errori, rifiuto che non può permettersi di essere ambiguo o tacito, specialmente quando l’errore è clamoroso. L a virtù teologale di fede ha come atto primordiale l’adesione dell’intelligenza a Dio che si rivela. Un atto quindi assolutamente interiore, invisibile. Tuttavia questo atto interiore non è l’unico atto della virtù di fede: l’adesione a Dio che si rivela deve essere necessariamente espressa all’esterno con degli atti sensibili, parole e gesti. Questo si chiama professione (o confessione) della fede, e san Tommaso ne parla nella terza questione della Secunda Secundae della sua Somma. Tale atto di fede esternamente manifestata è quindi necessario alla salvezza secondo due modalità. La prima è quella affermativa, che obbliga a esprimere la nostra fede in determinate circostanze, che poi esamineremo; la seconda, non meno importante, è negativa: ci è proibito semper et pro semper compiere qualsiasi atto che direttamente o indirettamente appaia come una negazione delle verità di fede, anche nel caso in cui mantenessimo nel nostro cuore l’adesione a queste verità. Procederemo secondo queste due linee all’esame della questione.

Il precetto affermativo della professione di fede

La manifestazione esterna della fede non può essere, come è chiaro, un atto compiuto continuativamente (ovviamente parliamo di diretta confessione di fede, non degli atti delle altre virtù, che indirettamente rendono testimonianza che siamo coerenti con ciò che crediamo). Quando sarà dunque necessario e obbligatorio esprimere a parole o gesti la nostra fede? In generale, per diritto divino, occorre manifestare la fede quando l’onore di Dio o l’utilità del prossimo lo richiedono. San Tommaso presenta i tipici casi di colui che tacendo la fede in una determinata circostanza lascerebbe credere di non averla (dando così scandalo ai presenti e “vergognandosi” di Dio), specialmente se espressamente interrogato a riguardo dalle autorità; o di colui che deve istruire e confermare il prossimo. Atti di fede esterni sono richiesti al to di ricevere i sacramenti (si recita ad esempio il Credo in occasione del battesimo, della Cresima, dell’Ordine; ma come vedremo poi, sono i sacramenti stessi a significare la fede). Professioni di fede esplicite su punti specifici possono essere richieste in determinati luoghi e circostanze, specie quando un’eresia imperversa in una regione o in un tempo: non è lecito il silenzio di fronte a un errore che domina tutta una società cui siamo supposti aderire. È d’altra parte interessante notare come san Tommaso nella quaestio citata (art. II ad 3um) ricordi che in alcuni casi può essere doveroso non fare un atto di fede esterno: cioè quando non solo non ce n’è la necessità, ma anzi sarebbe dannoso mettersi ad affermare la fede in determinate circostanze, per esempio quando si prevede solo «turbamento degli infedeli senza alcuna utilità della fede o dei fedeli». La Chiesa ha poi il potere di imporre per legge la professione di fede esterna in determinate circostanze: al momento della conversione dell’infedele o dell’eretico, ad esempio, non basta un atto interno di fede per essere ammessi nella Chiesa, ma occorre un atto esterno e pubblico, essendo la Chiesa una società pubblica per sua natura. Inoltre la Chiesa impone una professione di fede a tutti coloro che sono chiamati ad avere un ruolo di insegnamento o di responsabilità. Dalla più alta antichità esistevano, per esempio, gli “scrutini” per i candidati alla consacrazione episcopale, che venivano interrogati sulla loro adesione ai dogmi dal Metropolita (il rito è ancora contenuto nel Pontificale Romano). Nel 1564, durante il Concilio di Trento, il Papa Pio IV impose a tutti coloro che avrebbero ricevuto gli ordini maggiori, come a tutti coloro che ottenessero un incarico ecclesiastico o di insegnamento, l’obbligo di giurare una precisa professione di fede, che comprendeva il Credo e l’elenco di una serie di verità esplicitamente menzionate, onde evitare l’infiltrarsi di protestanti in seno a posti di responsabilità nella Chiesa, come stava avvenendo in Germania. Ovviamente tale formula conteneva anche l’espressione più generale di adesione a qualunque insegnamento della Chiesa Romana, e di condanna di qualunque dottrina la Chiesa condannasse, essendo impossibile enumerare una per una tutte le verità rivelate. Per evitare che i modernisti snaturassero tale giuramento con la loro concezione dei dogmi (cui possono anche affermare di aderire, ma non certo nel senso che credono che il contenuto dei medesimi corrisponda a realtà esterne alla coscienza), il Papa san Pio X aggiunse al testo di Pio IV il famoso giuramento antimodernista (1910), che riprovava esplicitamente tali interpretazioni. Entrambi questi testi sono stati messi da parte dalla setta modernista oggi imperante (decreto di Paolo VI, 1966), che chiede l’adesione a una nuova formula, meno precisa e senza allusioni al modernismo, elaborata dal Card. Ratzinger ed imposta da Giovanni Paolo II nel 1989 (a modifica di un testo ancora più striminzito che era stato introdotto nel 1967). La clausola finale di questo nuovo testo è particolarmente contraria alla dottrina cattolica: «Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico». Questo semplice “o” contiene tutta la dottrina conciliare del doppio soggetto del potere supremo, condannata dalla Chiesa.

Professione della fede nei Sacramenti

È un errore particolarmente dannoso il limitarsi a vedere i Sacramenti (e la Messa) come mere “macchine della grazia”, pensando che, purché sia compiuto validamente il rito, tutto il resto sia secondario. San Tommaso ci insegna che «omnia sacramenta sunt quaedam fidei protestationes» (1), tutti i sacramenti sono delle professioni di fede, e producono la grazia proprio in quanto la significano: questa significazione è essa stessa una manifestazione di quanto crediamo (l’errore protestante consisterebbe invece a escludere l’aspetto dell’efficacia per farne solo delle manifestazioni di fede). Se il carattere del Battesimo è dato per rendere il soggetto capace di ricevere i beni del culto cristiano (pubblico per sua natura), cioè in particolare gli altri sacramenti in quanto tali (è un carattere anzitutto passivo), quello della Cresima ci rende attivi negli atti del culto in quanto professioni di fede pubbliche (l’Ordine poi rende attivi negli atti di culto in quanto tali). Partecipare al culto della Chiesa, specie nei Sacramenti, non è solo ricevere la grazia, ma anche allo stesso tempo fare un’eminente professione pubblica di fede, compiere l’atto proprio e specifico del carattere della Cresima. I due aspetti non possono essere separati. La stessa professione di fede nella vita pubblica, compresa quella dei martiri, è fatta sotto la mozione della grazia della Cresima solo in quanto è, in senso largo, un atto di culto a Dio. Essendo dunque il culto della Chiesa, massimamente nella celebrazione dei Sacramenti, la professione di fede per eccellenza, è chiaro che nella celebrazione di questo culto ogni ambiguità sul contenuto della fede (e a maggior ragione ogni errore esplicito) assume un carattere di estrema gravità. Occorre quindi che il culto e la ricezione stessa dei Sacramenti si svolgano non solo in modo “meccanicamente” valido, ma anche in un contesto in cui risplenda nettissima la professione della fede cattolica. La partecipazione attiva a un rito è infatti adesione a quello che il rito esprime nella sua totalità, quindi anche alla dottrina che è esplicitamente professata in quella circostanza, oltre a quella oggettivamente espressa da gesti e parole. Si può ben capire fin d’ora quanto questo differisca da ogni forma di donatismo, l'eresia che negava l'efficacia dei sacramenti alla personale fede o dignità del celebrante. Si tratta al contrario della fede oggettivamente espressa dal rito celebrato nelle circostanze date, non di questioni personali. Sarebbe assolutamente pensabile che un sacerdote indegno o perfino eretico (ammettendo che la Chiesa lo riconosca ancora come suo ministro) celebrasse una Messa o un sacramento nei quali si professa integra la fede cattolica, dal momento in cui la sua eresia non si manifesta in nessun modo in quella circostanza: il fedele aderirebbe infatti al rito della Chiesa, non alle personali convinzioni del celebrante (2). D’altro canto, la Chiesa insegna che sebbene di per sé si debba genuflettere davanti all’Ostia consacrata da ministri non cattolici, si deve tuttavia evitare di dare l’impressione di mischiarsi agli acattolici e di condividerne le dottrine compiendo questi atti, dei quali bisogna quindi evitare le occasioni (3) (e questo vale pure per la visita a templi acattolici e l’onore che si potrebbe rendere a eventuali immagini sacre in essi contenute) (4): segno di quanto la Chiesa sia lontana dall’accontentarsi di una semplice dinamica sacramentale valida, ma sappia bene che la partecipazione a un culto indica l’adesione alla fede che quel culto nella sua integrità significa.

Il precetto negativo e il sospetto di eresia

Il precetto negativo riguardo la professione di fede obbliga semper et pro semper: ciò significa che non è mai lecito compiere un atto che comporti o lasci intendere la negazione della fede, o la occulti ingiustamente, o lasci intendere l’adesione a dottrine non cattoliche. Non sarebbe per esempio lecito bruciare l’incenso agli idoli, ma nemmeno farlo esternamente con l’animo di onorare però il vero Dio. Si capisce che il campo è molto vasto. Non tratteremo però qui l’esplicita adesione all’errore, o l’apostasia, che sono casi evidenti di negazione della fede, quanto una serie di situazioni intermediarie. Alcuni di questi casi di ambiguità rientrano in una categoria giuridica precisa, che viene chiamata dal diritto canonico sospetto di eresia: per esempio il fare patto tra gli sposi di far battezzare o educare i figli fuori dalla religione cattolica, o compiere di fatto tali azioni (can. 2319); il sacrilegio sulle specie consacrate (can. 2320); l’appello al Concilio contro una sentenza del Papa (can. 2332); l’ostinazione nella scomunica per più di un anno (can. 2340); la simonia nell’amministrazione dei sacramenti (can. 2371); l’aiuto alla propaganda degli eretici con parole di lode o aiuti materiali (ovviamente senza aderire formalmente all’eresia, il che sarebbe semplicemente apostasia), la comunicazione in sacris con loro (per esempio se un cattolico partecipasse attivamente a una funzione luterana) (can. 2316) (5); prima del codice del 1917 la stessa sodomia, l’esercizio della magia, la violazione del sigillo della confessione e il possesso di libri proibiti. Tutti questi atti infatti, benché non corrispondano a dirette negazioni della fede, lasciano intendere che chi li compie si dissoci dal credo della Chiesa, non essendoci altre spiegazioni plausibili a tali comportamenti (alcuni peccati si commettono infatti per fragilità, ma altri si spiegano difficilmente senza una particolare malizia dell’intelletto). Il sospetto di eresia comporta, dopo le debite monizioni, l’interdizione dagli atti legittimi, la sospensione per i chierici, e dopo sei mesi di impenitenza l’assimilazione de jure agli eretici (can. 2315). Secondo le Decretali il sospetto d’eresia può essere di tre tipi: lieve, se gli indizi sono di poca importanza; violento, se si fonda su certi argomenti; veemente se si fonda su argomenti probabili. Il diritto naturale impone al sospetto di eresia di riparare e di professare apertamente la sua fede cattolica, con un atto proporzionato alla gravità del sospetto suscitato, ovvero più o meno pubblico. Gli antichi canoni prevedevano vari modi e circostanze in cui pronunciare tale ritrattazione, detta “purgazione”. Tali atti hanno, prima ancora che una valenza canonica, una indubbia connotazione morale, per cui anche se la Chiesa non li punisse più nel suo diritto, resterebbero peccati mortali contro la virtù di fede, e anche contro la carità se vi si aggiungesse lo scandalo.

Qualche applicazione alla situazione presente

Alla luce di tutto quanto esposto finora, vediamo alcuni casi concreti che si riferiscono alla situazione attuale. Sappiamo che a partire dal Concilio Vaticano II si richiede ai cattolici un’adesione a dottrine contrarie al Magistero della Chiesa. Ne abbiamo parlato tante volte: quella sul diritto naturale a non essere impediti nel culto di qualsiasi religione, quella sul doppio soggetto del potere supremo, quella sul rapporto con le false religioni, etc. Quando un’adesione a queste dottrine è richiesta in modo esplicito (come è accaduto recentemente alla Fraternità San Pio X), il più chiaro diniego è necessario. Ma allo stesso modo non sarebbe lecito aderirvi anche solo esternamente, pur mantenendo la fede all’interno di se stessi, né tacere davanti a una situazione in cui l’utilità del prossimo è così gravemente in gioco, e in cui il silenzio può apparire come approvazione. Specialmente chi è inserito nel sistema ecclesiastico ordinario, per mantenere la professione di fede cattolica, deve prendere pubblicamente le distanze da questi errori, che i superiori professano e cui si suppone egli aderisca. Questo deve avvenire a qualsiasi prezzo, e qualora se ne colga la gravità, si è tenuti in coscienza a farlo. La vicenda di Mons. Lefebvre si spiega essa stessa in questo modo: il tacere gli errori professati dal Concilio, che egli chiaramente percepiva come tali, sarebbe parso l’approvarli insieme al resto dell’episcopato mondiale. Denunciarli pubblicamente diventava allora strettamente necessario, a qualsiasi prezzo, come dovere primordiale. Se oggi tale professione di fede contro gli errori viene punita dalle autorità, si capisce che lo stato di grave necessità generale non è una favola. Alleghiamo qui la dichiarazione di Mons. De Castro Mayer il giorno delle consacrazioni episcopali, dove l’altro grande Vescovo spiega la sua presenza a Ecône quel giorno proprio come una necessaria professione di fede. Ugualmente, da quanto abbiamo enunciato appare chiaro che, dal momento in cui percepiamo quanto la nuova messa si distacchi dalla professione di fede cattolica su sacrificio, sacerdozio e presenza reale (cf. Breve esame critico), non possiamo mai prendervi parte, nemmeno sotto il pretesto di partecipare ai sacramenti. Infatti non possiamo contraddire, con la partecipazione a un rito non cattolico, la fede che il sacramento valido in se stesso significa: sarebbe commettere un peccato che ostacolerebbe gli stessi frutti del sacramento, anche ricevuto validamente. Potremmo noi assistere passivamente, e magari avvicinarci solo alla comunione? Evidentemente no, perché partecipare alla comunione durante quel rito sarebbe la massima adesione possibile al contenuto di quel rito. Perfino in punto di morte non si devono accettare i sacramenti in un rito o da ministri non cattolici, qualora questo diventi o anche solo possa sembrare un’adesione ai loro errori. Quanto alle Messe tradizionali celebrate da sacerdoti che fanno professione di accettare gli errori del Concilio, o a quelle celebrate in virtù del motu proprio, lungi da ogni donatismo, dovremo fare attenzione non alla fede personale del celebrante, ma a quella di cui si fa professione esplicita in quella particolare celebrazione. Se si intende esplicitamente celebrare in virtù del motu proprio, che assimila l’antico rito al nuovo (e che nell’istruzione applicativa richiede, come il vecchio indulto, l’adesione al Concilio) (6), è ovvio che si sta partecipando alla professione di una falsità, e ci si deve astenere da questo (il significato della vecchia Messa vien infatti parificato a quello della nuova). Seppure infatti il rito di san Pio V, preso materialmente, significhi sempre la fede cattolica, vi vengono uniti ingiustamente dei significati ai quali il cattolico non può aderire, dal momento che ne abbia chiara coscienza. Questo, lo ripetiamo, vale nella misura in cui vi sia professione di questo all’esterno. Se fosse una pura convinzione personale del celebrante o di parte dei fedeli presenti, il discorso potrebbe essere diverso. Teniamo però conto che molte Messe introdotte dai Vescovi diocesani dopo il motu proprio sono celebrate esplicitamente a queste condizioni. Rimane quindi necessaria grande vigilanza e attenzione, essendo la chiara professione di fede un dovere così necessario alla salvezza, come insegna il Santo Vangelo: Qui me confessus fuerit coram homini bus, confitebor et ego eum coram Patre meo, qui in caelis est. Qui autem negaverit me coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo, qui in caelis est (Mt 10, 32-33).

1. Summa Theologiae, III q.72 art. 6 ad 3um. 2. Cf. ibidem, q. 82 art. 9. 3. Responsa Pii VI 18 maii 1793 ad 11 (cit. in Noldin, Summa theologiae moralis vol. II, Innsbruck 1917). 4. S. C. de Propaganda Fide, 15 dec. 1764. 5. Tutti i canoni citati qui e in seguito si riferiscono al Codice di Diritto di Canonico in vigore cioè quello promulgato nel 1917. 6. Istruzione Universae Ecclesiae, nn. 6-7 e 19.

mercoledì 17 aprile 2024

Vaticano, non luogo a procedere per il blogger del sito Silere non possum: “Difetto di giurisdizione”






di Alex Corlazzoli

“Non luogo a procedere”.
Si è chiuso così, per ora, il procedimento penale nei confronti di Marco Felipe Perfetti, blogger animatore del sito Silere non possum, particolarmente attento agli eventi e affari che avvengono sotto la cupola di San Pietro. Ieri, il presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone – dopo una breve camera di consiglio – ha dichiarato il “difetto di giurisdizione”.

In sostanza la Giustizia della Santa Sede ha dichiarato che non ha alcuna competenza perché il reato per il quale Perfetti è accusato (diffamazione) non è stato commesso nel territorio del suolo pontificio. A darne la notizia è lo stesso blogger che aveva saputo dell’udienza fissata venerdì alle 17 dai media senza ricevere – ha spiegato a IlFattoQuotidiano.it – alcuna notifica ufficiale.
In queste ore, intanto, si è saputo che a querelare Perfetti non è stato alcun prelato vicino a Bergoglio ma un politico residente in Italia che lavora con lo Stato del Vaticano. A finire sotto accusa sarebbe un post ritenuto diffamatorio nei confronti di questo noto personaggio. “Questi tentativi di intimidazione – dice Perfetti – non fermeranno l’operato di “Silere non possum” che continuerà a svolgere il proprio servizio nonostante queste operazioni risibili”. Ad essere anomalo è soprattutto il fatto che il tutto – dal momento che la persona offesa è italiana e l’accusato pure così la redazione che ha sede fuori dalla Città Stato – si sarebbe dovuto consumare nelle aule di qualche Tribunale italiano e, invece, si è svolto nella Santa Sede dove ad oggi il blogger entra e esce senza essere considerato “indesiderato” da Gendarmeria e Guardie Svizzere. Non solo. “I presenti in aula hanno riferito – dice Perfetti – che il Promotore di Giustizia, Alessandro Diddi, ha dichiarato di aver perfezionato le notifiche ma non è stata effettuata alcuna notifica alla mia residenza. Si è svolto il tutto senza l’imputato e senza che potessi conoscere l’incarto processuale o le accuse che mi sono state mosse. Tutto ciò di cui questa redazione è venuta a conoscenza lo ha recepito dai cronisti in aula. Questo conferma, ancora una volta, la completa inadeguatezza di chi è posto a ricoprire alcuni ruoli sia negli uffici requirenti che quelli giudicanti nel Tribunale Vaticano”.

Ora si tratta di capire se la persona che si ritiene diffamata da Perfetti porterà avanti la sua querela in Italia. Per il blogger è chiaro il tentativo di cercare di mettere il bavaglio al suo sito. Il blogger giorni scorsi aveva detto a ilfattoquotidiano.it: “La tutela della libertà di stampa in Vaticano non c’è; non c’è la possibilità di dire qualcosa fuori dai toni e noi, invece lo facciamo con tanto di documentazione. E’ chiaro che stiamo dando fastidio a qualcuno che vorrebbe che non esistessimo”.

Segui in diretta la cerimonia funebre di Mons. Huonder a Econe.


Il vescovo emerito di Coira ha espresso il desiderio di essere sepolto a Econe. Video del funerale, mercoledì 17 aprile 2024.

https://econe.fsspx.org/fr/events/funerail les-mgr-vitus-huonder-44162

Secondo il suo desiderio, espresso più volte, mons. Vitus Huonder sarà sepolto nel seminario di Écône, “ accanto al vescovo che ha tanto sofferto per la Chiesa ”. La messa pontificale da requiem 
sarà celebrata mercoledì 17 aprile alle ore 9,30, seguita dalla tumulazione nella volta del seminario.

Il 3 aprile 2024, Mercoledì di Pasqua, S.E Mons. Vitus Huonder ha restituito a Dio la sua anima dopo una breve malattia, di cui conosceva con piena lucidità l'esito fatale.

Fu nel giorno della festa di San Giuseppe, il 19 marzo, che entrò in ospedale. E fu proprio il lunedì santo, 25 marzo, giorno dell'Annunciazione, che venne fatta la diagnosi. Da allora in poi, Mons. Huonder si dimostrò perfettamente docile alle vie della Provvidenza, offrendo costantemente le sue sofferenze per la Santa Chiesa. Mostrò inoltre costante gratitudine alla Fraternità Sacerdotale  San Pio X.

martedì 16 aprile 2024

Professione di Fede di Mons. Salvador L. Lazo Indirizzata a Giovanni Paolo II il 21 maggio 1998




Carissimi amici e lettori,
Mons.Salvador Lazo Lazo (nato il 1 maggio 1918; morto l’11 aprile 2000) è stato un prelato filippino della Chiesa Cattolica Romana, svolgendo il compito di Vescovo della Diocesi di San Fernando de La Union, nei pressi di Manila, dal 1981 al 1993.
Fu ordinato sacerdote il 22 marzo 1947. Nel 1950 fondò l’Accademia San Josè. Dal 1951 fu rettore del seminario minore San Jacinto.
Il 1 dicembre 1969 fu incaricato come vescovo ausiliare di Tuguegarao, e venne consacrato vescovo il 3 febbraio 1970. Il 20 febbraio 1981 fu assegnato da Giovanni Paolo II alla Diocesi di San Fernando de La Union.
All’età di 75 anni, il 28 maggio 1993, si ritirò come vescovo titolare. Prese contatto con la Fraternità San Pio X e si dichiarò cattolico tradizionale; celebrando la Santa Messa esclusivamente col Rito Tridentino.
Il 21 maggio 1998 redasse una solenne Professione di Fede, che inviò a Giovanni Paolo II.
Morì a 81 anni. Il suo funerale venne celebrato da Mons. Bernard Fellay.



pubblicata dal sito francese della Fraternità San Pio X


A Sua Santità il Papa Giovanni Paolo II, Vescovo di Roma e Vicario e di Gesù Cristo, Successore di San Pietro, Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Patriarca d’Occidente, primate d’Italia, Arcivescovo Metropolita della Provincia di Roma, Sovrano della Città del Vaticano.

Giovedì dell’Ascensione, 21 maggio 1998

Santissimo Padre,

in questo decimo anniversario della consacrazione di quattro vescovi da parte di Monsignor Marcel Lefebvre, per la sopravvivenza della Fede Cattolica; per grazia di Dio, io dichiaro che sono cattolico romano. La mia religione è stata fondata da Gesù Cristo, quando disse a Pietro: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (Mt. 16, 18).

Santo Padre, il mio Credo è il Credo degli Apostoli. Il Deposito della Fede viene da Gesù Cristo ed è stato completato con la morte dell’ultimo Apostolo. Esso è stato affidato alla Chiesa Cattolica Romana perché serva di guida per la salvezza delle anime fino alla fine dei tempi.

San Paolo ordinò a Timoteo: «O Timòteo, custodisci il deposito» (I Tim. 6, 20), il Deposito della Fede!

Santo Padre, sembra che San Paolo mi dica: “Custodisci il deposito… Un deposito è ciò che si affida, non ciò che uno scopre. Lei lo ha ricevuto, non l’ha tratto da se stesso. Esso non dipende dalla ricerca personale, ma dalla dottrina. Esso non è per il suo uso privato, ma appartiene dalla Tradizione pubblica. Esso non deriva da Lei, ma è giunto a Lei. Nei suoi confronti, Lei non può agire come se fosse il suo autore, ma solo come suo custode. Lei non è l’iniziatore, ma il discepolo. Non le compete regolarlo, ma essere da esso regolato (San Vincenzo di Lerino, Commonitorium, n° 22).

Il Santo Concilio Vaticano I insegna che «La dottrina della Fede che Dio rivelò non è proposta alle menti umane come una invenzione filosofica da perfezionare, ma è stata consegnata alla Sposa di Cristo come divino deposito perché la custodisca fedelmente e la insegni con magistero infallibile. Quindi deve essere approvato in perpetuo quel significato dei sacri dogmi che la Santa Madre Chiesa ha dichiarato, né mai si deve recedere da quel significato con il pretesto o con le apparenze di una più completa intelligenza.» (Costituzione dogmatica Dei Filius, DzS 1800).

«Lo Spirito Santo infatti, non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede.» (Costituzione dogmatica Pastor Aeternus, DzS 1836).

In più, «il potere del Papa non è illimitato: non solo egli non può cambiare alcunché di ciò che è di istituzione divina, per esempio sopprimere la giurisdizione episcopale, ma, posto per edificare e non per distruggere, egli è tenuto per la legge naturale a non gettare la confusione tra il gregge di Cristo» (Dizionario di teologia cattolica, t. II, coll. 2039-2040).

Anche San Paolo ha confermato la Fede dei suoi convertiti, dicendo: «Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema!» (Gal. 1, 8).

Come vescovo cattolico, ecco brevemente la mia posizione sulle riforme post-conciliari del concilio Vaticano II. Se le riforme conciliari sono conformi alla volontà di Gesù Cristo, allora collaborerò volentieri alla loro realizzazione. Ma se le riforme conciliari sono pianificate per la distruzione della Religione Cattolica fondata da Gesù Cristo, allora mi rifiuterò di dare la mia cooperazione.

Santo Padre, nel 1969, è giunta a San Fernando, nella Diocesi de La Union, una notifica da Roma. Essa diceva che la Messa latina tridentina doveva essere soppressa e che doveva essere usato il Novus Ordo Missae. Non veniva data alcuna ragione. Poiché l’ordine veniva da Roma, si obbedì senza protestare (Roma locuta est, causa finita est).

Io mi sono ritirato in pensione nel 1993, 23 anni dopo la mia consacrazione episcopale. Dopo il mio pensionamento ho scoperto la vera ragione della soppressione illegale della Messa latina tradizionale. La Messa antica era un ostacolo all’introduzione dell’ecumenismo. La Messa cattolica conteneva i dogmi cattolici, che i protestanti negano. Allo scopo di giungere all’unità con le sette protestanti, la Messa latina tridentina doveva essere eliminata e sostituita col Novus Ordo Missae.

Il Novus Ordo Missae fu composto da Mons. Annibale Bugnini, un massone. Egli fu aiutato a fabbricarlo da sei ministri protestanti. I novatori ebbero cura che nelle preghiere non ci fosse più alcun dogma cattolico, che offendeva le orecchie protestanti. Essi hanno soppresso tutto ciò che esprimeva pienamente i dogmi cattolici, rimpiazzandoli con dei testi molto ambigui a tendenza protestante ed eretica. Essi hanno anche cambiato la formula della Consacrazione consegnataci da Gesù Cristo. Con tali modifiche, il nuovo rito della Messa è diventato più protestante che cattolico.

I Protestanti affermano che la Messa è solo un semplice pasto, una semplice comunione, un semplice banchetto, un memoriale. Il Concilio di Trento ha insistito sulla realtà del Sacrificio della Messa, che è il rinnovamento incruento del Sacrificio cruento di Cristo sul Calvario. «Questo Dio e Signore nostro, dunque, anche se una sola volta si sarebbe immolato sull’altare della Croce, attraverso la morte, a Dio Padre, […] nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito […] offrì a Dio Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino […] per lasciare alla Chiesa, Sua amata Sposa, un sacrificio visibile (come esige l’umana natura), con cui venisse significato quello cruento che avrebbe offerto una sola volta sulla Croce, prolungandone la memoria fino alla fine del mondo» (DzS 938).
Quindi, la Messa è solo di conseguenza una comunione al Sacrificio appena celebrato, un banchetto in cui si mangia la Vittima immolata in sacrificio. Ma se prima non vi è il Sacrificio, ne consegue che non vi è comunione con Lui. La Messa è innanzi tutto e prima di tutto un sacrificio e solo secondariamente una comunione o un pasto.

Si deve anche sottolineare che nel Novus Ordo Missae, la Presenza Reale di Cristo nell’Eucarestia è implicitamente negata. Osservazione, questa, che è vera anche riguardo alla dottrina della Chiesa sulla Transustanziazione.

In relazione con questo, il sacerdote, che un tempo era colui che offriva un sacrificio, oggi è stato declassato a presidente dell’assemblea. Per questo ruolo, egli si colloca di fronte al popolo. Nella Messa tradizionale, invece, il sacerdote si collocava di fronte al Tabernacolo e all’Altare in cui si trova Cristo.

Dopo aver preso coscienza di questi cambiamenti, io ho deciso di non dire la Messa con il nuovo rito, cosa che ho fatto per più di 27 anni in obbedienza ai miei superiori ecclesiastici. Sono ritornato alla Messa tridentina, che è la Messa istituita da Gesù Cristo nell’Ultima Cena, il rinnovamento incruento del sacrificio cruento di Gesù Cristo sul Calvario. Questa Messa di sempre nel corso dei secoli ha santificato milioni di cristiani.

Santo Padre, con tutto il rispetto che ho per Lei e per il Santo Soglio di San Pietro, io non posso seguire il suo insegnamento personale sulla “salvezza universale”, esso è in contraddizione con le Sacre Scritture.

Santo Padre, forse che tutti gli uomini saranno salvati? Gesù ha voluto che tutti gli uomini fossero riscattati. Egli infatti è morto per tutti noi. Tuttavia, non tutti gli uomini saranno salvati, perché non tutti gli uomini soddisfano le condizioni necessarie per rientrare nel numero degli eletti da Dio per il Cielo.

Prima di ascendere al Cielo, Gesù Cristo affidò ai suoi Apostoli il dovere di predicare il Vangelo a tutte le creature. Le sue istruzioni indicavano già che non tutte le anime si sarebbero salvate. Egli dice: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc. 16, 15-16).

San Paolo parlava allo stesso modo ai suoi convertiti: «O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (I Cor. 6, 9-10).

Santo Padre, dobbiamo rispettare le false religioni? Gesù Cristo ha fondato una sola Chiesa in seno alla quale si può essere salvati. E questa è la Santa Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana. Quand’Egli dà tutte le dottrine e le verità necessarie per essere salvati, non dice: “Rispettate tutte le false religioni”. Infatti, il Figlio di Dio è stato crocifisso sulla Croce perché nei suoi insegnamenti è stato senza compromessi.

Nel 1910, nella sua lettera Notre Charge Apostolique, il Papa San Pio X ha messo in guardia contro lo spirito interconfessionale, poiché esso fa parte del grande movimento di apostasia organizzato in tutti i paesi in vista di una Chiesa Mondiale.
Il Papa Leone XIII ha avvisato che “Poi con aprir le porte a persone di qualsiasi religione si ottiene il vantaggio di persuadere col fatto il grand’errore moderno dell’indifferentismo religioso e della parità di tutti i culti: via opportunissima per annientare le religioni tutte, e segnatamente la cattolica che, unica vera, non può senz’enorme ingiustizia esser messa in un fascio con le altre» (Enciclica Humanum genus).
Il processo va dal cattolicesimo al protestantesimo, dal protestantesimo al modernismo, dal modernismo all’ateismo.

L’ecumenismo, come è praticato oggi, è diametralmente opposto alla dottrina e alla pratica cattoliche tradizionali. Esso confina la sola Religione vera, fondata da Nostro Signore, allo stesso livello delle false religioni, opere degli uomini; cosa che nel corso dei secoli i papi hanno decisamente proibito ai cattolici di fare. «… è chiaro che la Sede Apostolica non può in nessun modo partecipare alle loro riunioni e che in nessun modo i cattolici possono aderire o prestare aiuto a siffatti tentativi» (Papa Pio XI, Mortalium animos).

Io sono per la Roma eterna, la Roma di San Pietro e San Paolo. Io non voglio seguire la Roma massonica. Il Papa Leone XIII ha condannato la massoneria nella sua enciclica Humanum genus del 1884.

Io non accetto neanche la Roma modernista. Il Papa San Pio X ha condannato il modernismo nella sua enciclica Pascendi Dominici gregis del1907.

Io non servo la Roma controllata dai massoni, che sono gli agenti di Lucifero, il Principe dei demoni. Io sostengo la Roma che guida fedelmente la Chiesa cattolica per compiere la volontà di Gesù Cristo, la glorificazione di Dio tre volte Santo, Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo.

Io mi ritengo felice per aver ricevuto in questa crisi nella Chiesa cattolica, la grazia di essere ritornato alla Chiesa che aderisce alla Tradizione cattolica.
Grazie a Dio, io dico di nuovo la Messa latina tradizionale, la Messa istituita da Gesù nell’Ultima Cena, la Messa della mia ordinazione.

Si degnino la Beata Vergine Maria, San Giuseppe, Sant’Antonio mio santo protettore, San Michele e il mio angelo custode, di aiutarmi a rimanere fedele alla Chiesa cattolica fondata da Gesù Cristo per la salvezza degli uomini.

Che io possa ottenere la grazia di rimanere fino alla morte nel seno della Santa Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, che aderisce alle antiche tradizioni, e di essere sacerdote e vescovo sempre fedele di Gesù Cristo, Figlio di Dio.

Molto rispettosamente,

Monsignor Salvatore L. Lazo, DD, Vescovo emerito della Diocesi di San Fernando de La Union.
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